Scorrendo la cronologia compresa nel libro "Gianandrea Gavazzeni musica come vita" (Grafica & Arte, 1999), curato da Luciano Alberti e da Giovanni Gavazzeni, si rimane colpiti dall'intensa voglia di novità che segna le ultime cinque stagioni di una carriera di più di sessant'anni (1933-1996). Per quattro volte di seguito Gavazzeni inaugura la stagione lirica palermitana con titoli mai diretti da lui prima degli anni novanta: Lucrezia Borgia, Esclarmonde, Zazà e Roberto Devereux (quest'ultimo dimenticato nella cronologia). Alla Scala debutta La rondine, a Genova La reginetta delle rose e I pagliacci. A Parma si cimenta per la prima volta con La poème de l'amour et de la mer di Chausson, e a Romano di Lombardia dirige, per la prima volta in quarantatré anni, una propria composizione. E quando, nel gennaio del 1996, sale sul podio per l'ultima volta, si tratta di un altro de-butto: L'aviatore Drò di Pratella. Nei saggi all'interno del libro, tuttavia, non si trova quasi nessun commento su quest'improvviso rinnovamento del repertorio, questa rinascita artistica che ha dato alcuni frutti straordinari. E la ragione è semplice: farlo avrebbe significato parlare della seconda e ultima moglie del maestro, Denia Mazzola, che fu la causa primaria di quel rinnovamento e di quella rinascita, e che figurò tra gli interpreti principali di tutti i titoli elencati sopra e di molti altri ancora. Non sappiamo i motivi di questa rimozione, che è stata imitata (o anticipata) da gran parte dei teatri italiani, ma qualunque siano non possono togliere al soprano un ruolo singolare e galvanizzante nel percorso artistico del marito. Lei rimane a pieno titolo la testimone più autorevole degli ultimi anni di Gavazzeni. E il fervore artistico di quegli anni vive ancora soprattutto nelle sue interpretazioni di opere come la Parisina di Mascagni e L'Amore dei tre re di Montemezzi (entrambe conservate in disco): interpretazioni di cui il maestro sarebbe stato sicuramente fiero. L'intervista si fa nella hall di un albergo a Monte Carlo: un luogo un po' irreale per una testimonianza che ha invece tutti gli accenti della verità.

Come fu il suo primo incontro con Gavazzeni?

E' avvenuto a Firenze, nella sala prove del Teatro Comunale, per un'audizione che era stata sollecitata dal mio agente di allora Oldani e dal direttore artistico della Scala Mazzonis. La Scala cercava una terza Lucia per un nuovo allestimento dell'opera donizettiana, che doveva essere diretta appunto da Gavazzeni. Sarei dovuta essere io una delle Lucie, insieme alla Devia e la Fabbricini. Inizialmente rifiutai di andare all'audizione, perché ormai ero nel mio tredicesimo anno di carriera e avevo cercato Gavazzeni per anni senza mai riuscire a farmi sentire da lui. Ogni anno gli avevo scritto, parlandogli dei nuovi ruoli debuttati - essendo bergamasca lo consideravo una specie di Nume - ma mi rispose soltanto una volta, dicendomi, molto freddamente, che lui non faceva audizioni se non con le persone con le quali avrebbe poi lavorato. Quindi andai a Firenze di malavoglia, e quando lui mi disse: "Ah, signorina Mazzola, noi bergamaschi ci incontriamo qui a Firenze! ", avevo una gran voglia di ribellarmi! Invece cantai tutto il ruolo di Lucia, lui al pianoforte. E fu un'esperienza molto bella. Appena iniziò a suonare era come se vedessi Lucia in palcoscenico: era già la rappresentazione di Lucia. E lui mi dava le repliche degli altri personaggi con totale immedesimazione, ed era tutto così vero che ho cantato senza nessuna difficoltà fino alla fine. Era di una tale semplicità cantare con lui che mi sembrava di conoscerlo da sempre. Fra l'altro stava male - era raffreddato, tossiva - e io gli diedi delle caramelline, dicendogli: "Tenga maestro, così si ricorderà di me". Al termine dell'audizione mi chiese se cantavo la Borgia. "Darei la vita per cantarla! " risposi. In quel periodo infatti la stavo preparando con la Cencer. Poi la sera quando arrivai a casa il maestro mi telefonò per sapere come era andato il viaggio e mi disse che aveva già comunicato alla Scala il buon esito dell'audizione e che c'era un progetto per una Lucrezia Borgia che doveva inaugurare la stagione a Palermo.

Quella Lucia però non fu infine diretta da Gavazzeni.

Lui avrebbe voluto attuare un progetto che aveva già ideato con la Callas negli anni cinquanta, ma che non si realizzò allora per paura delle reazioni: far eseguire la scena di pazzia com e scritta, senza la cadenza tradizionale. "Bisogna farla senza la pifferata": così chiamava la cadenza con flauto. "Lucia è un'altra cosa. Ha un colore drammatico, e questo è il momento giusto per fare questo tipo di operazione". Alla Scala però dissero di no, e rinunciammo entrambi a partecipare.

A quel punto eravate già marito e moglie.

Sì. Ci eravamo sposati l'anno prima, nel 1991. Galeotta fu una Bohème, sempre alla Scala, nella quale interpretai Musetta accanto alla Mimì della Freni. Non avevo molta voglia di cantare quel ruolo, ma quando seppi che era stato lo stesso Gavazzeni a chiedermi, accettai per cortesia, e poi sono stata contagiata dalla sua passione per quest'opera e per tutti i personaggi: una passione che a sua volta mi fece innamorare di lui.

Qual era il metodo di lavoro di Gavazzeni?

Lui si presentava fin dalle primissime prove di sala e voleva la compagnia al completo, sempre. Lasciava inizialmente che i cantanti esponessero la loro visione del personaggio, per poter percepire le potenzialità di ognuno di noi. Poi, giorno dopo giorno, incominciava ad avvitare: facendoci valorizzare soprattutto le parole, che dovevano sempre venir fuori, si trattasse di un'opera verista o del primo Ottocento. Insisteva sempre sul fatto che la drammaturgia dell'opera - più che dalle scene, dai costumi e dalla regia - deriva dalla parola cantata. Dopo questo lavoro ci lasciava alle prove di regia, alle quali assisteva lui stesso nel pomeriggio, mentre durante la mattinata faceva le letture di sola orchestra. Poi arrivavano le prove d'insieme. Spesso stava in teatro dodici ore al giorno.

Questo è un fatto insolito?

Succede di rado, oggi.

Se è così, dove si risparmiano i direttori odierni?

Purtroppo non assistono sovente alle prove di regia: spesso anzi approfittano di quel periodo per assentarsi per qualche giorno, perché intanto c'è il regista... Gianandrea invece era dell'idea che il montaggio dell'opera si fa sempre tutti quanti insieme: direttore, regista, compagnia. Solo da questo lavoro collettivo può venir fuori veramente il dramma. Se il direttore non è presente alle prove di regia, non può evitare che ci siano contrasti tra la drammaturgia musicale e la visione del regista. Voglio sottolineare poi che aveva sempre il massimo rispetto per i cantanti. Ha ottenuto da loro tutto quello che voleva senza mai prevaricarli. Era una gioia lavorare con lui perché arrivati alla prova generale si aveva l'impressione quasi di partorire un figlio: era il tuo personaggio. Per Gavazzeni fra l'altro il teatro era come le pittura, le arti plastiche: i personaggi non dovevano essere freddi, inermi, ma scolpiti. Nello stesso tempo la sua concezione dei personaggi era fluida, flessibile: mutava con gli anni, con il diverso contesto sociale in cui si rappresentava l'opera.

In cinque anni e mezzo avete interpretato tredici opere complete insieme. Come si facevano le scelte di repertorio?

Spesso erano i direttori artistici che chiedevano a me un certo ruolo, dicendomi che sarebbe stata gradita la presenza di Gavazzeni. Il quale aveva precedentemente deciso di dirigere soltanto al Comunale di Firenze e alla Scala (che chiamava "i teatri della mia vita"), ma poi cambiò idea per ragioni di affetto e di stima nei miei confronti e perché desiderava vedermi fare un determinato percorso artistico. Così tornò a dirigere in teatri come il Carlo Felice di Genova e diresse orchestre come l'" Arturo Toscanini". E voglio qui dire grazie a Gianandrea per avermi dato la possibilità di cantare tante cose bellissime che forse mi vennero proposte soltanto per aver lui in realtà, ma che furono fondamentali nella mia crescita artistica.

Colpisce la grande varietà del repertorio che avete affrontato insieme: in parte donizettiano, in parte verista, in parte francese.

Io sono un po' folle, nel senso che colgo le sfide della vita con incoscienza. Sono una donna curiosa, poi, e non dico mai di no a una proposta a priori. Cerco anzi di coniugare le esigenze di ruoli diversissimi con le mie possibilità vocali. Per Gianandrea naturalmente c'erano meno problemi, perché aveva già fatto di tutto ed era molto sicuro di sé. Tuttavia debuttò diverse opere con me. Arrivò a dirigere Zazà - lui che aveva anche qualche problema di vista - direttamente dalla fotocopia del manoscritto di Leoncavallo. E l'Esclarmonde di Massenet fu scoperta da lui quando mi vide cantarla a Parigi: "E meravigliosa - disse - mi piacerebbe poterla fare in Italia". Così nel 1993 si portò a Palermo l'allestimento francese, e lui la debuttò alla tenera età di 83 anni! Quell'opera fu per me la più difficile dopo il debutto in Traviata nel 1985, e rappresentò uno dei momenti più alti della nostra collaborazione. Ancora oggi quando rivedo il video di lui che dirige l'interludio del secondo allo, mi rapisce l'anima: piango ogni volta. Io credo molto fra l'altro - per esperienze fatte su me stessa e sugli altri - nell'energia che ciascuno di noi è in grado di emanare, e sentivo nella musica di Massenet e nel libretto di Alfredo Blau e Louis de Gramond una forza autenticamente magica. Quando, nella frase "Obeissez-moi ", che sale al Re sopracuto, protesi le mani verso il pubblico, sentivo uscire da quelle stesse mani un potere suggestivo quasi ipnotizzante. Esclarmonde, infatti, è un personaggio con il quale puoi veramente soggiogare gli ascoltatori.

Facevate anche molti concerti insieme.

Abbiamo fatto Le nuits d'été di Berlioz, La poème de l'amour et de la mer di Chausson, gli oratori Paulus e Elias di Mendelssohn, l'Egmont di Beethoven e il Requiem di Donizetti. E ho avuto la grandissima emozione di riesumare insieme a lui le Due Arie Religiose per soprano e orchestra che aveva composto (su testi propri) nel 1935. Lui aveva rinnegato da tempo la sua musica, ma io, come al solito curiosa e indefessa, dissi: "Gianandrea, voglio conoscere come scrivi, come suona la tua musica". "Ma no - mi rispose - lasciala perdere. Ormai è sepolta. Non mi voglio più sentire come compositore". Ma io andai a vedere nel suo archivio e trovai queste arie religiose, e siccome il Requiem di Donizetti è abbastanza corto, proposi di farle nello stesso concerto. E alla fine lui me le insegnò al pianoforte e accettò di eseguirle. E mi ricordo ancora che quando le concertò a Parma con l'orchestra (io andavo sempre alle letture d'orchestra) disse a un certo punto, tenendo la mano sul mento in una tipica espressione: "Non suonano mica male!"

Un'altra vostra "riscoperta" fu quella della Parisina di Mascagni.

Nel cinquantesimo anniversario della scomparsa di Mascagni, Gavazzeni doveva dirigere dei concerti commemorativi a Livorno e a Firenze, con alcuni brani sinfonici, tra cui Guardando la Santa Teresa del Bernini. Qualche tempo prima del concerto andai nell'archivio del maestro per curiosare tra gli spartiti impolverati, molti dei quali erano appartenuti al padre di lui, Giuseppe Gavazzeni, che per diletto faceva l'operatore teatrale al Teatro delle Novità (ora il Teatro Donizetti) di Bergamo. Tirai fuori lo spartito di Parisina e rimasi subito affascinata dal titolo, dalle illustrazioni delle prime scene e soprattutto dalle didascalie di D'Annunzio, che sembrano già un romanzo. Andai di corsa alla sala del piano del maestro e gli chiese com'era questa Parisina: "Pensa - disse - che questa è una delle opere che adoro di più in assoluto. E mio padre l'amava così tanto che andava a tutte le rappresentazioni. È fantastica: guarda qui". E si mette al pianoforte e suona il primo atto - era un pianista meraviglioso - lasciandomi completamente soggiogata da questa musica. "Dai, Gianandrea, facciamola" dico. "Eh sì, ti starebbe proprio bene" dice lui. Così si pensò di fare il quarto atto dell'opera nel secondo tempo del concerto commemorativo. Da quel momento in poi parlai di quest'opera con tutti, e siccome in fondo la parola è energia, prima o dopo riesci a colpire qualcuno che realizzerà il tuo progetto. Sarebbe stato doveroso allestire l'opera in Italia, ma invece l'idea è stata colta da René Koering, il direttore artistico di Radio France, che mi permise di debuttare l'opera in forma di concerto nel 1999, sotto la direzione di Enrique Diemecke. Questa volta non si fece il quarto atto, perché si rispellarono i tagli che erano stati introdotti dallo stesso Mascagni. Così mi è successo di cantare tutta l'opera, ma in due momenti diversi. Sarebbe bello naturalmente farla come fu originariamente concepita. Io comunque ho la registrazione dell'esecuzione livornese del quarto atto, così come ho registrato tutto quello che ho fallo con il maestro in quegli anni: le prove di sala, le prove di concertazione, le interviste, il lavoro che abbiamo fatto insieme in casa e in teatro.

Non c'era dunque per voi una scissione tra la vita domestica e la vita professionale?

No. Quando si decideva il titolo da eseguire, io prendevo lo spartito e lavoravo inizialmente con un pianista finché non fossi a un punto abbastanza avanzato dal punto di vista interpretativo. Poi chiedevo a Gavazzeni di assistere al mio lavoro, e da lì iniziava un dialogo continuo. Lui era il mio grande interlocutore e tendenzialmente ero china davanti a lui per apprendere tutto. Ma qualche volta avevo qualche guizzo interpretativo, e glielo proponevo anche con una certa energia. A volte nacquero dei piccoli conflitti su come interpretare la musica, ma vennero risolti prima che iniziassero le prove di sale in teatro.

Le capitava di eseguire a casa con Gavazzeni musiche che non aveva intenzione di cantare per il momento in teatro?

Certamente. Ricordo, per esempio, che mentre lui preparava la Fedora per la Scala, io - che adoro quest'opera (avevo già cantato il ruolo di Olga qui a Monte Carlo accanto a Renata Scotto, cercando di capire da vicino i segreti del suo fraseggio) - gli chiesi di suonarmela un po', in modo che potessi cantare qualche brano. E lui disse: "Ah però, tra qualche anno la faresti molto bene. È un'opera per te, così come la Francesca da Rimini". Abbiamo letto infatti molte opere che non erano eseguibili nell'immediato per me. Gli chiedevo di leggermele per permettermi capire com'erano le tradizioni esecutive e come lui le avrebbe concertate. Quando per esempio Hollànder volle scritturarmi per L'amore dei tre re di Montemezzi al Konzerthaus di Vienna, io neppure sapevo cosa fosse, e al telefono chiesi informazioni a Gianandrea. E lui: "Farai la Fiora benissimo!". Così accettai la proposta. L'opera doveva essere eseguita nell'aprile del 1996, e mi ricordo che il 21 gennaio di quell'anno lasciai le prove dei Dialogues des Carmélites a Verona per poter stare a casa con Gianandrea che già stava molto male. Mi metto al pianoforte e cerco di leggermi da sola il duetto di Fiora con Avito, senza però cavarne granché. Gianandrea, che stava con le bombole d'ossigeno, si staccò la maschera dal viso e si mise al zpianoforte: suonò l'intero duetto, canticchiandolo pure. Poi disse: "Non ce la faccio piu!". Fu l'ultima musica che eseguì in vita sua.

Come finì l'esperienza di quelle ultime settimane?

Il maestro era credente, anche se talvolta un po' agnostico - come diceva lui stesso - e in questo ci siamo trovati. Si andava alla messa insieme, dove si incontrava pure il suo pubblico, e qualche volta anche il mio, e ci facevano delle foto fuori delle chiese. Però essendo un uomo che aveva sempre avuto una salute di ferro - e negli anni passati con me stava sempre benissimo, come dimostra fra l'altro la stessa quantità del lavoro fatto - era sicuro di arrivare ai cent'anni con la bacchetta in mano, e durante l'ultimo mese di sofferenza non accettò la non-reazione del suo corpo alla malattia. Il maestro fu tenuto all'oscuro - su richiesta dei familiari - del male che l'aveva colpito. Io gli dicevo semplicemente che aveva una broncopolmonite, e credo che fino a quattro giorni prima di morire era comunque convinto di dirigere la Fedora alla Scala quella stessa stagione. Solo allora, infatti, mi disse: "Chiama il dottor Fontana e digli che non ce la faccio a riprendermi da questa bronchite in tempo". Nelle notti trascorse sempre con lui, mano nella mano, si ribellò contro il destino, e dovetti invitarlo a rendersi conto che la sua vita era stata costellata da molta fortuna e molto amore. Fu però problematico trovare chi lo assistesse spiritualmente senza che si rendesse conto di avvicinarsi alla fine. Ricorsi infine a don Francesco Bonello del Museo Mascagnano di Bagnara di Romagna, dove si conservano le quattromila lettere di Anna Lolli, la compagna del compositore. Eravamo stati da lui a Natale e Gianandrea aveva detto, come se presagisse qualcosa, che avrebbe voluto finire i suoi giorni nella sua canonica. Siccome Gianandrea era coinvolto nella presentazione dell'epistolario di Mascagni, decisi di confondere le due cose: lui, infatti, era contentissimo di vedere don Francesco, e così ebbe da quest'uomo puro e semplice, un conforto spirituale. Eravamo entrambi con lui alla fine.

Cosa possono imparare i giovani direttori dall'esempio di Gavazzeni?

Lui non vorrebbe essere imitato. Ma spingerebbe i giovani direttori - e anche quelli meno giovani - a dedicarsi di più alla lettura, a frequentare di più l'essere umano, ad approfondire ogni forma artistica, perché tutto poi si ritrova nel teatro: umanità, storia, fenomeni sociali. Lui non ha insegnato a nessuno - parlo naturalmente del periodo in cui vivevo con lui - la tecnica direttoriale, ma qualche giovane ha seguito le sue concertazioni e i suoi consigli, che riguardavano però più la visione concertativa che la tecnica in senso stretto. Inviterebbe i giovani direttori, se hanno una formazione pianistica, a non lasciare il pianoforte troppo facilmente e a fare per molti anni la cosiddetta gavetta al pianoforte in sala con i can tanti: un'esperienza che ti dà la dimensione della voce umana. Poi consiglierebbe di approfondire qualche argomento, arricchendo sempre di più le proprie conoscenze per costruire un vero bagaglio culturale. Di non saltare con superficialità da una cosa all'altra senza avere le basi solide. Di andare alle prove dall'inizio fino all'ultima recita: è li che si costruiscono i nessi della musica e della drammaturgia attraverso la conoscenza umana delle persone. E direbbe ai giovani direttori di avere un po' di umiltà e di riservatezza. Gianandrea era un uomo molto riservato. Ogni tanto faceva dichiarazioni eclatanti, per muovere un po le acque troppo stagnanti del cosiddetto perbenismo, ma sempre con grande rispetto per il prossimo.

Dopo la scomparsa del maestro lei ha cantato molto più all'estero che in Italia. Perché?

Non conosco le ragioni, anche se posso immaginarle tutte. Dopotutto non sono una ragazzina, e gli anni passati accanto a Gavazzeni mi hanno fatto maturare moltissimo. Ho provato molto dolore in questi cinque anni: sia per la perdita di Gianandrea - che è un dolore privato - sia per la volontà esplicita da parte dei teatri di ignorarmi come cantante. Un atteggiamento che mi fa supporre molte cose, ma finché si tratti di cose non dichiarate non posso dire quali siano veramente. Prendo atto di essere una cantante italiana, una professionista seria e diligente, non pettegola, con la voce integra - come dimostrano certi miei tour de force compiuti all'estero - che tuttavia fatica a trovare scritture nel proprio paese. Mi piacerebbe che qualche teatro si prendesse la briga - e qui lancio una sfida - di dirmi le ragioni, soprattutto perché voi stessi teatri, quando il mio marito era in vita, mi invitavate per ogni sorta di ruolo, e con me veniva sempre il Maestro Gavazzeni. Mi dicono che non ci sono titoli per me: non è vero. Ho dimostrato la mia versatilità tante volte. L'anno scorso ho cantato la Cassandra di Gnecchi seguita, dieci giorni dopo, dalla Medea di Cherubini. Tredici giorni dopo la Parisina ho cantato I vespri siciliani. E mentre mi preparavo per I pagliacci a Genova nel 1995, studiavo la Semiramide di Rossini con il pianista del teatro.

Come vede l'evoluzione della sua voce in questi vent'anni di carriera?

Io sono partita come soprano leggero - facevo la Regina della Notte, le Variazioni di Proch - ma sentivo stretta quella definizione perché, assecondando il mio temperamento, interpretavo la musica sempre in maniera drammatica, con accenti forti. Quando cantavo Elvira, Amina, Adina e la Figlia del Reggimento mi dicevano "troppa passione in questo bel canto". Un giudizio che rispetto, anche se personalmente non mi piace il bel canto algido. A un certo punto ho scelto di lasciare alle spalle i ruoli leggeri, rinunciando anche a diverse scritture. Venivo sempre etichettata, però. Quando con Gavazzeni ho cantato le regine donizettiane sono diventata la "donizettiana", poi in seguito "la verista". Quest'anno però canto tanto Verdi (Les vespres siciliennes, Giovanna d'Arco, I masnadieri), oltre alla Risurrezione di Alfano. E nel repertorio Novecentesco mi sono spinta fino all'Aviatore Dro di Pratella e alla Turandot di Busoni: la prima opera che ho eseguito in tedesco. In concerto avevo già cantato il Liebestod e i Wesendonck Lieder di Wagner, e prima o poi mi piacerebbe, se trovo qualche operatore teatrale abbastanza folle da propormelo, interpretare qualche personaggio wagneriano adatto alla mia voce, la Salome di Strauss - un ruolo che adoro - e magari anche Capriccio.

 

Stephen Hastings, Musica, Aprile 2001